

Siamo diretti a vedere i pozzi della miniera, temporaneamente chiusa ma che che dovrebbero essere riaperti in primavera, appena il secondo round di finanziamenti arriverà dagli investitori statunitensi. La visione è impressionante, anche rispetto a quello che già si intuisce dalla strada, che costeggia i depositi accumulatisi nel corso dei decenni di estrazione – la miniera è stata attiva quasi ininterrottamente dal 1906 al 2015. Queste montagne artificiali, spigolose, dal profilo innaturale, celano in realtà canyon scavati a gradoni alti trenta metri ciascuno, che terminano in laghi dove la pioggia è diventata un ghiaccio che sembra dipinto in strane volute dal vento poderoso che spesso colpisce l’area. Intorno a noi c’è solo il nero della roccia ricca di ferro della miniera, il rumore assordante delle raffiche, il ghiaccio che ricopre le pareti di roccia e questa sorta di fiume congelato che attraversa il pozzo principale, stretto e lungo. Siamo nell’Inferno dantesco, in mezzo al terrificante Cocito, il lago ghiacciato che imprigiona Lucifero nel suo eterno lamento. Il vento feroce e congelato che ghiaccia il nostro respiro rende questa visione terribilmente reale.
La visione è terribile, ma la discussione con i responsabili della miniera inaspettatamente piacevole; le parole di Thomas Bækø, direttore di Sydvaranger, incontro al caldo dei loro uffici, sottolineano le potenzialità green del consolidato processo di estrazione e affronta il difficile tema dei tailings - ossia dello scarico dei materiali nel mare adiacente. Sostiene che il fiordo sia già stato usato, che i dati a disposizione mostrano effetti negativi nettamente inferiori rispetto a quello di altri impianti, che non ci sono metalli pesanti nelle rocce, né correnti che trasportino i detriti in mare aperto. Una prospettiva che si potrebbe discutere, certo, ma che lui presenta con dati e con una solida base scientifica, senza negare l’impatto in assoluto della miniera: la riapertura porterà all’estrazione di almeno 45 milioni di metri cubi fino al 2038 e alla costruzione di depositi alti fino a centoventi metri, in aggiunta ai tailings. “La Norvegia ha però preso la decisione drastica di mettere la parola fine all’era del petrolio” dice Thomas. “Dobbiamo valutare delle alternative, e il settore minerario è, per me, un’opzione molto valida, sotto molti punti di vista.” Il riferimento di Thomas alla “decisione drastica” è alla risoluzione del novembre 2017 da parte del Fondo Sovrano norvegese, il più grande al mondo, di disinvestire completamente dalle risorse fossili i suoi mille miliardi di dollari. Un evento epocale: la Norvegia, primo produttore di petrolio in Europa, uno dei principali fornitori di idrocarburi dell’UE, un paese la cui prosperità è nata grazie all’oro nero, è stato il primo a diversificare investimenti che ancora hanno un ruolo di rilievo nella finanza di Londra, New York, dei mercati asiatici. Si è trattato di uno dei messaggi più forti per la lotta al cambiamento climatico e per il futuro della transizione energetica; le parole di Thomas confermano quanto questa decisione abbia scosso le fondamenta dell’economia norvegese fino alla sua frontiera più estrema. Se infatti la transizione energetica porterà, in tutta Europa, ad un aumento netto dei posti di lavoro – almeno un milione, forse quasi un milione e mezzo in più al 2030, questo non sarà però un passaggio immediato, perché alcune aree potrebbero beneficiare e altre potrebbero patire da questi cambiamenti: diversificazione delle attività economiche, investimenti in nuove aree, soprattutto nelle regioni più fragili, serviranno a bilanciare effetti distributivi ancora sconosciuto. Una lotta al cambiamento climatico che, ancora una volta, si dimostra intrecciata a doppio filo con l’evoluzione della società europea.